BiPart, una vocazione per la partecipazione

di Silvana Carcano
partecipazione

Il bene comune come strumento di arricchimento di un’intera comunità

Con questa intervista vi presento Stefano Stortone, fondatore di BiPart, impresa sociale e Start-up innovativa di Milano, che si occupa di ricerca, progettazione e realizzazione di bilanci partecipativi e processi di innovazione democratica, attraverso l’uso di tecniche deliberative e di tecnologie civiche digitali.

Stefano, mi pare di capire che hai fondato la tua azienda con un obiettivo particolarmente sfidante: contribuire a migliorare il mondo. Ecco, spiegami un po’.

Non potrai mai crederci, se pensi a quello che faccio oggi, ma tutto è nato grazie a Bruno Vespa! Paradossale, se ci penso ora, ma la decisione di spendere la mia vita per il pubblico, o il bene comune, è nata proprio guardando Porta a Porta. All’epoca ero appena diplomato in Elettronica e Telecomunicazioni e, dopo una breve parentesi di volontariato in Brasile, ho passato un anno intero alla ricerca di lavoro, invano. E molte serate sul classico divano a guardare la TV, insieme a mio padre. Non so bene il perché, ma ricordo che in una di quelle sere ho pensato che parte della mia vita e delle mie competenze sarebbero servite per ricevere uno stipendio e far crescere l’azienda di qualcuno. In quel momento capii che volevo lavorare per far arricchire tutta una comunità, non poche persone. E da lì è nata una vera e propria passione per il bene comune che è sfociata nella decisione di iscrivermi all’università e studiare Scienze Politiche. L’obiettivo di quel tempo era lavorare nel pubblico, posto fisso da tipico ragazzo del sud, ma con qualche altra motivazione in più.

Il secondo e più importante momento di svolta è arrivato tuttavia alla fine dell’università. Avevo deciso di fare una tesi di laurea sul tema della crisi della democrazia e della rappresentanza politica, tema più che mai attuale, per capire come migliorarle. Durante queste ricerche incrociai e approfondii il tema del terzo settore, dei principi di sussidiarietà e delle teorie relazionali, alla base della dottrina sociale della Chiesa. Decisi, quindi, di iniziare a continuare questo percorso di approfondimento facendo un dottorato di ricerca, tra l’Italia e l’Inghilterra, dove è avvenuto il terzo e definitivo momento di svolta, quando cioè sono venuto a conoscenza dell’esistenza dei bilanci partecipativi. Ed è stato amore a prima vista!

In un Paese democratico a cosa serve il bilancio partecipativo?

Il bilancio partecipativo serve principalmente a cambiare la cultura democratica di un paese per far sperimentare l’esistenza di nuove forme di partecipazione e di governo, al di là di quelle note e ben poco funzionanti. La democrazia è anche espressione della cultura di un Paese e per cambiare la democrazia va anche cambiata la mentalità e lo spirito dei cittadini. E per farlo non basta parlare ma anche sperimentare e conoscere sempre cose nuove. In particolare, che quando i cittadini partecipano in processi concreti, la democrazia funziona meglio e non prevalgono interessi di parte e chi ha più potere, a partire da quello economico. Nell’immediato, poi, il bilancio partecipativo permette ai cittadini di attivarsi in forme semplici per proporre e decidere direttamente cosa realizzare nel proprio quartiere e nella propria città con una parte delle proprie tasse.

Visti i bassissimi livelli di partecipazione civica, intendi dire, quindi, che c’è stata un’inversione tra mezzi e fini? Un tempo la politica indicava i fini e l’economia i mezzi per raggiungerli. Oggi, l’economia detta i fini e la politica esprime i mezzi per raggiungerli. Non credi che sia una rischiosa inversione?

Non solo un’inversione, ma anche e soprattutto una concentrazione di potere in mano a poche persone e gruppi di interesse, che tende ad accrescere a discapito dei cittadini, sempre più impotenti. Ci sono tante forme di potere – politico, economico, comunicativo, etc. – e sono tutte accomunate dalla capacità di ognuna di incidere sulla vita delle persone che, al contrario, perdono il controllo della propria vita su ogni aspetto, dal voto, al lavoro, al reddito, fino alla stessa identità, manipolata in varie forme. Se nel passato i cittadini riuscivano ad avere una certa forma di controllo e di accesso, oggi non è più così: i poteri sono globali e sempre più sfuggenti e autonomi dalle istituzioni, adesso tutto è globalizzato.

Quali esperienze importanti ci sono state nel mondo in tema di bilanci partecipativi?

La prima e più importante è stata e rimane quella di Porto Alegre in Brasile, dove la cittadinanza ha vissuto una sperimentazione in una logica movimentista/civile, inventandosi questa pratica di partecipazione e di governo del territorio improntata a garantire giustizia ed equità sociale. Poi ci sono le esperienze statunitensi, che hanno cercato di mantenere questo obiettivo, favorendo la partecipazione delle comunità afro e ispano americane, quelle meno rappresentate politicamente e per questo più astensioniste. Il bilancio partecipativo si è, sì, diffuso nel mondo, ma purtroppo non con lo stesso spirito della prima ora. E’ diventato un processo partecipativo come tanti, dove i cittadini sono coinvolti nella decisione in merito ad una piccolissima parte del bilancio pubblico, e per questo non è più in grado di avere un grande impatto, quantomeno nell’immaginario collettivo.

In Italia come è diffuso il bilancio partecipativo?

Fino ai primi anni duemila eravamo tra i paesi dove si sperimentava maggiormente il bilancio partecipativo. Oggi non più, anche se la fiammella è ancora accesa e si vedono segni positivi di ripresa, come nel caso della Sicilia dove, grazie ad una legge regionale, in molti Comuni sta nascendo una nuova sensibilità e delle nuove competenze sul tema della partecipazione.

La sfida è, tuttavia, sempre quella di non pensare che il bilancio partecipativo sia quello che conosciamo, ma qualcosa che deve crescere e migliorare per poter rispondere alle grandi sfide della democrazia e dell’umanità. Una sfida che non può mai essere delegata alle élite, deve, invece, essere diffusa più che mai.

L’Unione Europea aiuta questi processi?

Non tantissimo, a mio parere. Ci sono cenni di apertura, ma ad un livello molto sperimentale se non proprio cerimoniale, per far vedere e farsi vedere. L’esperienza più recente è la Conference on the Future of Europe, dove un numero limitatissimo di cittadini scelti in maniera casuale ha lavorato per formulare, discutere ed elaborare proposte sulle politiche europee, raccolte dal basso anche tramite una piattaforma digitale. Capisci che la rappresentatività del processo è pressoché nulla e, al di là delle buone intenzioni, non può che sfociare nel classico format delle istituzioni che ascoltano i cittadini. Ma le istituzioni devono essere l’espressione dei cittadini, non devono ascoltarli!

E tu perché insisti con la tua impresa a diffondere questa pratica di democrazia?

Per una sorta di vocazione: perché sin dal primo giorno di università, nonostante le mille difficoltà (può esistere un’impresa che produca democrazia e sia al tempo stesso sostenibile?) questo progetto mi riempie, non mi annoia mai, continua a crescere ed attrarre persone e colleghi speciali e di un valore immenso. E mi sorprende ogni volta che i momenti di sconforto mi fanno dubitare della scelta che ho fatto.

Nelle organizzazioni private il bilancio partecipativo può essere uno strumento di democrazia? Ha senso?

Certo, il tema della governance diventa sempre più prioritario se un’azienda vuole davvero essere sostenibile. Non per niente, si parla dei criteri ESG, dove la G sta per governance, la modalità di gestione dell’azienda: più è aperta e democratica e più potrebbe trovare delle energie e idee nuove per sopravvivere a questo mondo sempre più complesso. Ad esempio, pensa al tema della salute, benessere e sicurezza sul posto di lavoro, oppure della CSR. L’essenza del bilancio partecipativo è far emergere i bisogni di una comunità dove nessuno faccia da filtro o da censura preventiva. Quindi, se fatto bene, può aumentare il dialogo e la fiducia all’interno di un’azienda e far emergere subito proposte efficaci che realmente possono aumentare il benessere dei lavoratori, ma non solo, anche della comunità circostante. Ma, ovviamente, serve un cambio culturale, questo tipo di processo è un acceleratore di istanze dal basso.

Secondo il premio Nobel per l’economia Douglass C. North sono i cambiamenti graduali a generare le evoluzioni permanenti, non quelli discontinui come le guerre, le rivoluzioni e le calamità. Un cambiamento graduale deriva da un numero importante di relazioni e comportamenti individuali, mentre quello discontinuo, pur generando salti radicali in breve tempo, non modifica davvero i meccanismi decisivi dello sviluppo economico e democratico di un Paese. È una prospettiva speranzosa per i bilanci partecipativi, no? Gradualmente, dal basso, qualcosa può cambiare effettivamente.

Assolutamente sì, questi processi possono generare gradualmente un’evoluzione dei comportamenti e delle relazioni informali tra persone, istituzioni e organizzazioni, per poi consolidarsi e trasformare il mondo che ci circonda. Speriamo solo che duri il tempo di una vita, perché sarei contento di vedere i frutti del nostro lavoro.

Quali canzoni possono meglio rappresentare questa tua vocazione per la partecipazione dal basso?

Non sono un grande e raffinato esperto di musica. Senza essere scontati, scomodando i grandi classici, come La libertà di Giorgio Gaber o le classiche canzoni di denuncia o di sensibilizzazione politica, come Talkin’ Bout a Revolution di Tracy Chapman, le canzoni che più mi rappresentano in questo percorso sono in particolare quelle più allegre e spensierate, che parlano di vita quotidiana, ma anche di resistenza, che raccontano e al tempo stesso sognano un mondo dove tutti possano avere il diritto di essere felici nella loro semplice umanità. Sempre con il sorriso sulle labbra e l’abbraccio facile. Come le canzoni della Bandabardò, un misto inebriante di poesia e politica. Oppure quelle che parlano sempre di temi politici e sociali, ma con un ritmo e una sonorità che ti danno adrenalina ed energia per andare avanti. Conosci ad esempio Chadwick Stokes? L’ho scoperto da poco e ti invito ad ascoltarlo. Potentissimo!

VISITA IL SITO DI ETHYCON, IL PROGETTO DI SILVANA CARCANO.

 

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