Lo chiamano “il Blues”

di Vito Schiavone
Elton John

L’attività che svolgo e soprattutto il contesto lavorativo che vivo mi hanno portato a studiare molto da vicino problematiche relative allo stress lavoro correlato, nome – a mio parere – alquanto sgradevole, che si riferisce per definizione ad una situazione di disagio spesso legata alla sensazione che una persona ha di non essere in grado di rispondere alle aspettative lavorative riposte in lui e che può avere pesanti risvolti a livello fisico, psichico e sociale.

Le citate aspettative non necessariamente sono legate alla qualità o alla quantità del lavoro da svolgere, ma semplicemente al ruolo che viene imposto al singolo all’interno dell’azienda in cui opera o che lui stesso si è disegnato addosso (potendo riguardare anche un libero professionista).

Alle situazioni che portano, nel peggiore dei casi, a subire questo tipo di stress o a superarlo, nella migliore delle ipotesi, ho pensato recentemente durante l’ascolto di una selezione dei migliori brani di un grande artista pop-rock inglese, la leggenda vivente Elton John.

Personaggio eccentrico del panorama musicale mondiale, Elton John ha vissuto un’infanzia difficile, tipica dei geni incompresi che, sotto la spinta di un vero e proprio talento, riescono ad emergere e trasformarsi da crisalide a farfalla, nonostante le difficoltà a contorno.

La sua carriera artistica è fulminante e in breve la sua fama di musicista geniale, seppur allo stesso tempo controverso, lo porta alla ribalta mondiale sino a fargli ottenere la nomina di “baronetto” da parte della Regina Elisabetta II, che gli permette oggi di anteporre al suo nome il titolo di “Sir” al pari di altrettante icone della musica mondiale quali i The Beatles.

Non essendo un critico musicale né un musicista, non ho alcuna intenzione di scrivere un articolo sul cantante in sé, né sull’interpretazione delle sue canzoni: solo mi piacerebbe che ripercorreste con me quel viaggio pieno di suggestioni provate ascoltando alcuni dei suoi più famosi brani, calate in relazione ad esperienze lavorative che possono condurre a stress.

Ho pensato alla primavera della nostra vita, quando abbiamo intrapreso studi importanti o magari iniziato a lavorare, ho pensato a quella grande emozione, a quella gioia che esplode in noi quando iniziamo a entrare in una fase nuova dell’esistenza, dalla quale ci aspettiamo un alto livello di gratificazione.

Ho pensato a quella voglia di sorprendere che ci fiorisce dentro, alla forza di dimostrare a tutti quanto siamo unici e bravi nella nostra attività, a quella voglia di essere in qualche modo diversi da tutti gli altri che “ballano il rock around the clock”, mentre noi ci scateniamo a ballare un originalissimo Crocodile Rock.

Entriamo così nel mondo del lavoro pieni di entusiasmo ed autostima, ma gradualmente ci avviamo poi ad una seconda fase, quella dell’affermazione, nella quale consolidiamo la nostra posizione sino a diventare quello che spesso crediamo che gli altri vogliono che noi si debba essere.

Anno dopo anno, lavoro dopo lavoro, cominciamo a sentirci quasi prigionieri del ruolo che ci viene dato, o che ci siamo costruiti, tanto da sentirci soli in quel freddo spazio descritto in Rocket Man. Luogo gelido ed isolato che non è sicuramente adatto a noi, né tantomeno adatto “per far crescere i nostri figli”: ed allora ci sforziamo di capire che “noi non siamo quelli lì, che è solo il nostro lavoro e solo per cinque giorni a settimana, e che non vediamo l’ora di ritornare a Terra”, per tornare ad essere noi stessi.

La situazione che stiamo vivendo in questa fase ci appare nebulosa e difficile da affrontare con le risorse a nostra disposizione, ma se solo facessimo un passo indietro forse riusciremmo a vedere meglio le cose, come davanti ad un quadro di pittori impressionisti.

Perderemmo sicuramente qualche dettaglio, ma vedremmo la situazione reale nel suo complesso, apprezzando meglio il contesto generale della nostra vita lavorativa, così come il protagonista di Your Song che non ricorda bene se il colore degli occhi della sua amata “siano verdi o blue”: solo ricorda che “sono gli occhi più dolci che lui abbia mai visto”.

Laddove il malessere diventasse invece insostenibile, arriviamo nella fase in cui è necessario distaccarsi materialmente da quella situazione lavorativa che in un certo modo può averci annichilito e, consci del fatto che talvolta una rottura può comunque far valorizzare a posteriori l’esperienza fatta, accettiamo una separazione senza rimpianti perché la nostra vita lavorativa “non è per niente un sacrificio” (Sacrifice).

Al termine di questo percorso ci ritroviamo insperabilmente di nuovo in piedi, potendo dimostrare a noi stessi, prima che agli altri, che siamo oramai come dei veri “sopravvissuti, nuovamente in grado di provare emozioni come se fossimo tornati bambini” e che, malgrado certe situazioni avverse avrebbero potuto annientarci, ora possiamo urlare a tutti che “ci siamo rialzati e stiamo meglio di quanto lo siamo mai stati in passato” (I’m still standing) e possiamo ripartire “raccogliendo tutti quei pezzi della nostra vita” che ci eravamo persi per strada.

Abbiamo capito che è meglio “piangere nella notte, se questo ci può far bene” e che ora è finalmente tempo per tornare a “ridere come bambini, vivere come amanti, rotolarsi come tuoni sotto le coperte”.

Personalmente adoro la musica e le suggestioni che riesce a donarmi ogni volta che la ascolto, emozioni nuove che cambiano a seconda del mio stato d’animo: tutto sommato… “immagino che sia per questo che lo chiamano il Blues” (I guess that’s why they call it the Blues).

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2 commenti

Cinzia Percoco 3 Febbraio 2021 - 17:07

Nuovo articolo, nuove emozioni… grande Vito!

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vito schiavone 4 Febbraio 2021 - 11:54

Grazie! sono contento ti sia piaciuto!

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