L’Elemento Umano & la Sicurezza Sociale

di Giuseppe Laregina
L'elemento umano & la sicurezza sociale

Si vince e si perde, si pestano merde
Che si infilano nelle fessure sotto la suola
Si vive, si muore, si prova dolore
Dal quale non c’è mai un pensiero che ti consola
Si parla coi cani, si stringono mani
Si fa spesso finta di essere qualcosa
Si guarda il tramonto, si arriva in ritardo
Ci piovono addosso macerie di vita esplose
Si fanno dei figli, si sognano sogni
Si fanno castelli di sabbia sul bagnasciuga
Si infilano perle di vetro nelle collane
E si progetta una fuga
Noi siamo l’elemento umano nella macchina
E siamo liberi sotto alle nuvole
Noi siamo l’elemento umano nella macchina
E siamo liberi sotto alle nuvole

Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti

 

L’elemento umano, partiamo da questo dettaglio.

L’elemento umano è la parte del mio lavoro che mi ha sempre affascinato, spesso incuriosito e, talvolta, impaurito.

L’elemento umano in cui non riponeva grande fiducia Sir Winston Churchill quando disse: “Vorrei vivere per sempre, almeno per vedere come tra cento anni le persone commettono i miei stessi errori.”

Nel Febbraio del 2012 partecipai a un evento con due relatori molto diversi tra loro: Julio Velasco e il Comandante delle Frecce Tricolori. Andato per ascoltare il Professor Velasco, rimasi colpito dall’intervento del Comandante delle Frecce Tricolori.

A proposito di “Elemento Umano”, il Responsabile della Pattuglia Acrobatica affrontò vari temi, tra questi quello della sicurezza/insicurezza analizzati dal punto di vista dell’eccesso di confidenza.

Raccontò che, per ridurre il rischio causato dall’eccesso di confidenza, dopo il terribile incidente di Ramstein dell’Agosto 1998, decisero di abbassare il numero di anni di permanenza dei piloti all’interno del Team. L’obiettivo era ridimensionare il rischio che derivava dal rapporto che i piloti avevano col binomio “consuetudine del fare/sfida del limite”.

Le sue parole mi portarono a una considerazione personale: “Quando abbasso la soglia di attenzione o riduco la zona di sicurezza entro cui prendo delle decisioni, cosa può accadere?”

Riusciamo sempre ad avere ben chiaro il binomio azione/reazione collegato ai nostri comportamenti e alle nostre decisioni? Oppure l’abitudine, il pilota automatico con cui affrontiamo la quotidianità, ci porta a sottovalutare i rischi che corriamo e che facciamo correre e così facendo avviciniamo pericolosamente le dita alla presa della corrente?

L’abitudine al rischio può condurci a prendere decisioni spericolate che rappresentano l’anticamera di un errore irreparabile?

Cosa accade quando sfidiamo i nostri limiti, non solo dal punto di vista della sicurezza fisica, ma anche di quella che chiamerei Sicurezza Sociale?

Quando pensiamo al tema Sicurezza, la mente giustamente corre subito alle normative e ai comportamenti da mettere in atto per evitare che qualcuno, nello svolgimento di una mansione, finisca col farsi male o peggio ancora diventi una tragica notizia in uno dei telegiornali della sera. Ma come ci relazioniamo con un altro tipo di “Sicurezza”: la “Sicurezza Sociale”?

Come gestiamo oneri e onori della leadership?

Siamo di quelli che si sentono “in missione per conto di Dio!” (cit.) o siamo pienamente consapevoli della condizione di privilegio di cui godiamo?

Viviamo la leadership come una responsabilità o come la porta di accesso a una serie di vantaggi?

A chi non è capitato di vedere Manager che prendono decisioni molto importanti utilizzando Vasco Rossi e la sua “Voglio una vita spericolata” come colonna sonora?

Quanti di noi ragionano sul fatto che la vita, non solo fisicamente ma anche socialmente, di tantissime persone dipende dal livello di rischio, approssimazione e d’azzardo delle decisioni che prendiamo?

Non confondiamo coraggio con incoscienza. Scelte guidate da testosterone ed egocentrismo possono rivelarsi catastrofiche per le persone di cui ci dovremmo occupare e preoccupare.

Se opto per una strategia da “giocatore d’azzardo” che si rivela fallimentare e porto al dissesto i conti di un’Azienda, di quanto metterò a rischio la “Sicurezza Sociale” dei dipendenti dell’Azienda?

Se, senza alcun rispetto per la vita altrui, decido di trasferire a centinaia di chilometri gli uffici di una consociata per forzare delle dimissioni che mi portano a un obiettivo ben chiaro, ma cinicamente mai dichiarato (riduzione dei costi aziendali), quante picconate avrò tirato alla “Sicurezza Sociale” delle persone coinvolte nel mio piano di riorganizzazione? Ne sarà valsa la pena? Ogni aspetto, non solo quello finanziario, sarà stato valutato e considerato?

Oppure me la caverò con uno stereotipato, e quanto mai ipocrita, approccio tipo “Nulla di personale, si tratta solo di business”? Quando sappiamo benissimo che ogni decisione collegata al business ha un impatto sulla vita delle persone! Ma questa è materia per un’altra riflessione…

Quali sono allora gli accorgimenti che possiamo attivare per aumentare il controllo sui rischi che facciamo correre alla Sicurezza Sociale delle persone che lavorano con noi?

Prima di tutto, banale ma non sempre realmente presente, partire dalla migliore forma di controllo che io conosca: l’autocontrollo.

Poi fare di tutto per circondarsi di collaboratori in gamba e liberi di manifestare il loro dissenso in maniera costruttiva (proposte puntuali, concrete e alternative).

Le persone con solidi principi etici, professionalmente preparate e libere di esprimersi sono delle utilissime spie (non spioni) necessarie a far accendere una lucina rossa sul cruscotto che il manager intelligente e responsabile avrà fatto costruire. Il manager ottusangolo i cruscotti purtroppo li distrugge.

Sono le cinture di sicurezza gestionali.

Entrano in funzione quando ego e autoreferenzialità ci potrebbero portare a guidare da bendati, superando i limiti di velocità dettati dalla ragione.

Per raggiungere questo obiettivo occorre costruire una cultura aziendale che pratichi quanto suggerisce Bertrand Russell “Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai”.

Lo cantano i R.E.M., gruppo iconico per un “aspirante vecchia cariatide” come il sottoscritto.

All’inizio di “Final Straw” il mitico Michael Stipe parte con “As I raise my head to broadcast my objection”.

Alzare la mano e far sentire per tempo la nostra voce magari ci espone a qualche rischio, ma può cambiare il corso degli eventi.

Rosa Parks nel 1955 si rifiutò di cedere il posto sull’autobus a un bianco. Non pensava di dare origine a tutto quello che accadde poi, era semplicemente stanca.

Aveva lavorato duro tutta la giornata e voleva solo essere rispettata.

Mai sottovalutare la forza di un semplice gesto.

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