Formattare l’eternità

di Marco Colombo
Formattare l'eternità

Da qualche parte, in un remoto punto dalle ignote coordinate spazio-temporali, magari in un universo parallelo, esisterà davvero una società priva di preconcetti, scevra d’apparenza ma colma di sostanza, una civiltà dove non regnino necessariamente la produttività a tutti i costi, l’arrivismo e l’ostentazione, bensì la qualità della vita e il benessere interiore? Come si potrebbe mai raggiungerla?

“Don’t be afraid, you’re safe with me, safe as any soul can be… honestly, just let yourself go”! […] “(I’ll) Make you an offer you can’t refuse, you’ve only got your soul to lose… Eternally… Let yourself go!”

Un bel viaggio nello spazio-tempo: ecco la proposta dell’immaginifico demone tentatore, protagonista di Somewhere in time, opener dell’omonimo album targato Iron Maiden, datato settembre 1986. Basterebbe accettare la sua offerta, concedergli la propria anima, et voilà: il viaggio di cui necessitiamo sarebbe bello che servito.

Magari, a bordo di una roboante macchina del tempo decappottabile, dotata di appositi sensori per evitare i blocchi temporali posti dagli “abitanti” del centomillesimo secolo, personaggi alquanto guardinghi e schivi, ma in definitiva meno invasivi se confrontati a noi “primitivi”, pasticcioni e curiosoni.

O almeno, così è come Isaac Asimov ce li ha descritti nel masterpiece “La fine dell’eternità” – per improbabili lamentele circa la scarsa caratterizzazione di tali individui, o avverso il loro modo di gestire la propria privacy, rivolgersi all’Eternal Customer Care e alla sconfinata gentilezza dei suoi operatori.

Che il veicolo sia una macchina del tempo particolarmente avanzata, o una sinistra, demoniaca esperienza extrasensoriale, o l’automobile che ci porta al lavoro, la meta finale resta sempre e comunque sconosciuta, se ci si è posti l’obiettivo di raggiungere un luogo migliore rispetto a quello da cui si è partiti.

Ma davvero serve andare a scovare un luogo migliore? Perché? E cos’è, qual è, un luogo migliore? Una location in cui possiamo lasciarci andare ai nostri più egoistici gozzovigli? Un fantasioso castello circondato da Campionesse Altruiste, foriere di Scudi Divini a protezione della nostra incolumità? Una celestiale cittadina, ordinata, standardizzata, apparentemente perfetta (conforme, per così dire), ma totalmente asettica?

No. Nulla di tutto ciò.

Anzi, ad onor del vero, non ci sono necessari né mezzo di trasporto, né viaggio, dal momento che non dobbiamo andare da nessuna parte e in nessun luogo. Il nostro impegno serve qui, e in questo momento; perdere tempo fantasticando sulla fantomatica esistenza di una lontanissima Terra Promessa dove, come per magia, lavoro – produttività – sicurezza – salute e benessere coesistano amorevolmente, senza sforzo, nihil prodest.

Quella Terra Promessa è la nostra, la popoliamo già, e siamo noi a doverla rendere tale. Certo, finché: esisteranno appalti edili (e non) assolutamente non gestiti; i sistemi di sicurezza verranno verificati solo “alla bisogna”; gli spazi confinati “ci vado io, perché se no rimanete chiusi dentro” (e poi resto chiuso dentro io); i costi del personale non terranno sempre e comunque conto della formazione e della sorveglianza sanitaria necessarie a rendere gli operatori consapevoli e a porli nella condizione di lavorare protetti e in salute; gli incentivi all’occupazione saranno utilizzati dalle aziende per rimpinguare le casse sbagliate; i finanziamenti di varia natura non verranno per nulla utilizzati per gli scopi prefissi.

In questi, e in molti altri casi che non andiamo ad elencare oltre perché ognuno di noi li conosce perfettamente, riscontreremo delle pesanti sacche di non conformità – ma, questa volta, non si tratta di sterili non conformità legate alla rispondenza nei confronti di un qualche standard qualitativo, ma strettamente correlate allo standard qualitativo (ormai clamorosamente deprezzato) della nostra vita.

Ora: modificare la realtà, nell’opera di Asimov, comportava ai tecnici il raggiungimento del Massimo Risultato Ottenibile (“MRO”) tramite il Minimo Mutamento Necessario (“MMN”), concetti che indirettamente profumano di ROI, che tanto richiamano record di produttività, che molto poco puntano però alla salute della società e alla sua libertà, mirando esclusivamente ad un’effimera illusione di controllo.

Tanto effimera che, partendo da questi presupposti, gli Eterni spesso e malvolentieri finiscono poi col ritrovarsi a fare i conti con le proprie decisioni, conti che nella quasi totalità dei casi non tornano. Nel romanzo, l’incidente scatenante consiste nella “sparizione” della nobile Noys Lambent, verificatasi a seguito di una modifica temporale apportata proprio dal protagonista Andrew Harlan, col quale era precedentemente nata una liaison. Lo stesso Harlan, novello Alexander Hartdegen del ventisettesimo secolo, inizia quindi a remare contro gli Eterni e l’Eternità stessa, pur di recuperare la sua bella. In pratica, un Robespierre mixato all’Orlando di furiosa memoria, in seno all’azienda; ammutinamento bello e buono, seppur decisamente motivato e sensato: sovvertire lo status quo per ripristinare un ambiente più adatto, più accogliente, più umano. Certo, decidere di formattare l’eternità è un gran bel trick: il ragazzo ha fegato.

Per quanto ci riguarda, la nostra fortuna risiede nel non dover né cancellare, né affrontare paradossi spazio-temporali; tuttavia, permangono a nostro carico paradossi normativi, commerciali, economici e soprattutto paradossi etici, apparentemente i più ingestibili, costantemente gravati da incongruenze sostanziali tra ciò che il mondo del lavoro, drogato da un’esasperata, sleale concorrenza ci chiede, e quello che sarebbe invece un modus vivendi più consono all’essere umano. Non stiamo reclamando una industrial devolution, ma una human (r)evolution. Siamo noi a decidere come e quando porre in atto questa intergalattica, epica, debordante azione correttiva, che, come output, avrà una decisa, intelligente e sostenibile inversione di priorità tra impegno lavorativo e benessere.

Come fare? Cosa modificare? Quali sono i criteri di accettabilità che percepiamo come ragionevoli? Su quali linee guida abbiamo deciso di incanalare il nostro percorso? Siamo stati in grado di consolidare le nostre conoscenze, renderle indipendenti, calarle nel mondo reale, declinarle nelle nostre aziende, nei nostri uffici, nei nostri magazzini, nei nostri reparti produttivi, e trasmetterle alla nostra platea?

Oppure, abbiamo passato tanto, troppo tempo applicando dogmaticamente delle bistrattate regole, in maniera acritica, incastrandole a forza nel quotidiano, trasformando giorni, settimane e mesi in impoveriti “wasted years”, tanto cari alla succitata Vergine di Ferro, dea incontrastata dell’East End?

Forse dovremmo iniziare a cambiare; a non dover per forza standardizzare, a non mettere incondizionatamente al primo posto la necessità di sopravvivere primeggiando in apnea, ma quella di vivere potendo respirare ogni secondo a pieni polmoni. Forse dovremmo viverla un po’ come scrive Adrian Smith, appunto, in “Wasted Years”: Face up, make your stand, realize you’re living in the golden years”!

 

Insomma, alla fine, ancora una volta, siamo a chieder(ci): ”Lei chi è, in questo vasto Multiverso, signor Strange”?

 

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