School life balance

di Stefano Pancari
School life balance

Bravi, anzi bravissimi, nell’avere una visione di un mondo del lavoro mentre stiamo seduti in comodi salotti sulle nuvole, ma qui per terra la storia è tutta un’altra.

In assoluta buona fede ne parliamo e straparliamo, ma non solo non siamo del tutto capaci a convertire in fatti i pensieri che pronunciamo, ma siamo anche inermi di fronte alle cose della vita.

Guardiamo la scuola di oggi. Mentirei se ti dicessi che ricordo nitidamente la mia infanzia nei dettagli, ma qualche fotogramma qua e là è ben presente. Ricordo di aver avuto in prima elementare una cartella rossa, di quelle rettangolari con un manico e un laccio per la spalla. La ricordo bene perché era di cartone per davvero, rivestita di non so qual film di pelle plastificata, e proprio l’ultima giorno di scuola mi ritrovai con il manico in mano dopo le sollecitazioni di un anno.

Chi ha figli lo sa. Il peso degli zaini, in fibra hi-tech ovviamente, è oltremodo sproporzionato a dei bambini e, pur adattandosi con modelli tipo trolley, ho cari tutti coloro che all’ingresso della scuola devono sovraccaricare come ciuchi la loro schiena e farsi uno o due piani di scale. Se per lo meno il peso fosse proporzionale al peso della cultura che si porteranno a casa, ne saremmo tutti felici. Se. Altro che cartella di cartone!

Il parallelo bambino – scuola e adulto – lavoro non si limita soltanto alla movimentazione manuale dei carichi, ma soprattutto a ciò che mi arrogo il diritto di definirlo come school life balance.

Ai miei tempi la famiglia poteva scegliere se riprendere il bambino all’ora di pranzo o fargli fare il tempo pieno. Io ero tra i secondi e, sempre nelle istantanee che ancora ho in mente, ricordo che il pomeriggio facevamo i compiti. Infatti, una volta usciti di scuola, era la volta del calcio o dei giardini o a giocare in casa con il giocattolo di Goldrake.

Oggi, i lavoratori e manager di domani crescono in una cultura in cui il tempo libero, il tempo da dedicare a sé stessi, allo sport e allo svago non è più un diritto.

Ancora peggio: è carente il diritto di potersi fare una personalità relazionandosi nel tempo libero agli amici, perché di libero c’è ben poco. La mole di compiti (lavoro) che gli viene dato è tale per cui fare uno sport è un lusso che devi incastrare a forza nell’agenda della giornata, tra le isterie di mamma e papà che tra la cena e quel che rimane del giorno devono far studiare i bambini. Per non parlare del tanto atteso fine settimana che è fagocitato dai libri, dai temi e dai disegni. Difficile far passare il concetto che studiare è bello quando privi un bambino della sua naturale essenza. Molte famiglie concorderanno sul fatto che facciamo fatica a organizzare una gita fuori porta, figuriamoci un weekend di spensieratezza da qualche parte.

Rovinato il contatto con il mondo del bambino e messi in stress gli equilibri familiari.

Se tutto questo è considerato normale dalla Società, che siamo noi, forse dovremmo mettere in discussione la nostra normalità. Chi se lo può permettere vive lo smart working come un diritto acquisito, ma viviamo in un contesto dove il tempo per coltivare una passione o semplicemente per distrarsi è la fonte di stress successivo per le cose di lavoro che ti restano indietro.

Guardo questi bambini come futuri adulti, chi in giacca e chi in tuta da lavoro, inghiottiti da una Società che gli succhia linfa vitale facendoli e facendoci diventare automa del Sistema, mentre i fashion victim delle risorse umane continuano a teorizzare un mondo del lavoro, e non solo, che fatica ad esistere.

Qui dal pianeta terra è tutto, continuate il vostro aperitivo lassù sulle nuvole.

 

 

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